Il tesoro del Brigante Gabriele Galardi nascosto a Grotta Paglicci?

Gli ori del Brigante Galardi e la storia di Leonardo Esposito, che li ricercò per la sua intera esistenza. Grazie a lui si conobbe la Grotta di Paglicci, che restituì tesori di immenso valore culturale.

di Angelo Del Vecchio

Continua a vivere la leggenda del tesoro di Jalarde
Ogni anno in cui gli archeologici tornano a scavare Grotta Paglicci (Rignano Garganico) per portare alla luce nuovi e strabilianti reperti, si riaccende la fantasia degli appassionati sulla storia degli scavi che si sono susseguiti tra gli anni ’50 e ’70, storia che si confonde con quella di un indomabile e tenace cercatore di tesori.

Si tratta di Leonardo Esposito, originario di San Nicandro Garganico, deceduto ormai diversi anni fa. Come già scritto, costui ricercava accanitamente lo scrigno di Jalarde, all’anagrafe Gabriele Galardi, capo-brigante che qui si nascose e visse negli anni cruciali del brigantaggio post-unitario che imperversava in modo cruento specie nel Gargano meridionale.

Di Galardi e delle sue gesta si hanno scarne notizie, per lo più attinte per via di storia orale.

Si sa che era originario di San Paolo Civitate. In quei tempi, la piana della Madonna di Cristo e il Vallone di Settepende, ricco di anfratti e di nascondigli, era un sicuro rifugio per briganti e malfattori, perseguiti dalle guardie regie e dall’esercito piemontese, sceso giù in forza per reprimere il tristo fenomeno. La Grotta si trova sul fianco meridionale del Gargano, più precisamente sulla riva sinistra del Vallone di Settepende, ad una quota di circa 100 metri sul livello del mare.

Essa si trova al confine fra due ambienti molto diversi fra loro: in basso la grande pianura del Tavoliere, che per lunghi periodi dovette offrire praterie poco arborate o steppe e dissodata del tutto solo a partire dalla prima metà dell’Ottocento; in alto la montagna con i suoi dirupi rocciosi, che dalla superficie un poco inclinata del primo gradone calcareo, posto fra i 100 e i 150 metri circa di altezza, raggiunge rapidamente la quota di 600 metri del secondo gradone, sulla sommità del quale è appollaiato Rignano.

D’altra parte, macchie e piccoli boschi nei vari periodi si addensavano lungo i valloni, specie in quello che ci interessa da vicino: Grotta Jalarde o Paglicci. Per questa sua selvaggia posizione l’antro era il luogo preferito per raduni in grande stile di malfattori, in quanto esso inghiottiva – secondo quanto ci raccontano gli anziani – attraverso un passaggio segreto uomini e cavalli. Attualmente l’imboccatura originaria non c’è più e si entra in grotta attraverso una porta protettiva realizzata dagli archeologi, durante le campagne di scavo che si sono succedute, con la media di una all’anno, nel corso degli ultimi cinque lustri.

E’ durante siffatti riunioni che i briganti avrebbero consegnato al Galardi tutta la refurtiva delle loro razzie, in termini di ori ed altri oggetti preziosi, che provvide subito a sotterrare non si sa dove, per essere ripresa subito dopo la conclusione della lotta anti-brigantaggio. Così non avvenne, anche perché tutti i capi furono via via fucilati e lo stesso Galardi incarcerato. Di qui la leggenda del tesoro di Jalarde, coltivata e perdurata nella memoria collettiva del popolo rignanese fino a qualche decennio fa.

A questo punto, dato che il cercatore è morto da anni, non si sa con certezza se si sia mosso sull’onda della fantasia popolare o abbia ricevuto notizie certe e documentate circa l’esistenza del tesoro. C’è addirittura chi afferma in proposito, che l’Esposito abbia seguito le orme di una confessione che lo stesso Galardi avrebbe fatto ad un suo pari, poco prima di morire in carcere, consegnandogli la fatidica ‘mappa’, passata poi di mano in mano sino a quelle del cercatore in questione. Così non è.

Altrimenti perché Esposito avrebbe rovinato completamente nell’affannosa ricerca tutto ciò che gli capitava davanti, cavando tonnellate e tonnellate di roccia con mine ed altri mezzi meccanici, e buttando a pezzi tutto il Riparo Esterno.

Un pizzico di verità, tuttavia, nella vicenda c’è ed è costituita dagli oltre 40 reperti litici, fossili, esempi di arte mobiliare, ecc., che abbracciano l’intero periodo paleolitico per un vasto periodo che va da 300 mila anni fino a 11 mila anni da oggi. E’ questo il vero tesoro, che forse vale molto di più dello scrigno aureo che lui cercava. Insomma, una beffa: davanti ai propri occhi Esposito aveva un tesoro, ma non lo ha riconosciuto in tempo, né forse aveva il bagaglio culturale per saperlo. Dei risultati della campagna in corso non si sa ancora niente, chissà che fra i tanti ritrovamenti della prima età dell’uomo, non si trovino anche, frammisti ai primi, quelli più venali ed appariscenti dei tempi più recenti, come quelli citati nel racconto in parola.

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